Tuesday, February 19, 2013

Lontano dagli occhi, per sempre nel cuore

Incontrai per la prima volta il dottor Giovanni Martini un pomeriggio di quasi trentatré anni fa nel retrobottega di un barbiere sulla via Pisana a Firenze Legnaia. Io bivaccavo là quasi tutti i giorni, per distrarmi dai gravami scolastici e dai garbati rifiuti della mia compagna di classe Stefania, bramatissima anche perché – ma non solo... – diceva di no a tutti. Che dicesse di no anche a me, però, mi seccava proprio... Mi giunsero allora in soccorso gli scacchi. Condividevo infatti il retrobottega con un pittore squattrinato, tale Antonini, che vantava un nome da Annigoni in Francia e lamentava invece – con malcelato astio – poca fortuna in patria. Né io né lui ci tagliavamo spesso i capelli, per la gioia del verace tarantino Mino, che della bottega pagava ogni mese con qualche patema il fitto. Trascorrevamo i pomeriggi assorti in lunghe partite a scacchi; l’Antonini era giocatore tutt’altro che debole, nonostante non avesse mai frequentato né circoli né sale di torneo. Era ponderato e – direi – piuttosto solido in difesa, anche se sempre un po’ trattenuto dalla paura di perdere. Io lo trattavo con i guanti e con simpatia – senza calcolo d’infingimento – e lui mi ricambiava quel tanto poco – bontà sua – che tuttavia mi consentiva anche di vincere. Le sue relazioni col prossimo erano però assai turbulente, soprattutto col “padrone di casa” Mino, che l’Antonini trattava come fosse il garzone di bottega, e di cui rimarcava ad ogni piè sospinto e con perfida gratuità sia le umili origini che la non accademica cultura. Di quando in quando bazzicava il retro anche un altro appassionato di scacchi – un medico chirurgo più o meno in carriera – al quale l’Antonini riservava con egualitarismo tutto francese battutacce acide e sfottò da caffè d’avanguardia. L’esasperato chirurgo rimediava una batosta dopo l’altra e masticava amaro. Finché un giorno non pianificò una raffinata vendetta: avrebbe portato là – senza preavviso – un suo amico bravissimo a scacchi che avrebbe dovuto sfidare l’Antonini e infliggergli una lezione coi fiocchi. Io non dovevo interferire. Alla fine l’agguato riuscì, e quella fu la prima volta che vidi il dottor Martini: un uomo imponente, dall’aspetto un po’ pretesco, con le mani piccole e curatissime. Il chirurgo gongolava e lo presentò tosto all’Antonini che però, sempre sul chi va là e sulla difensiva, accampò subito una scusa per non potersi trattenere e cortesemente declinò il guanto di sfida. Il chirurgo era su tutte le furie, e non poté impedire che Martini, ormai incomodato, giocasse una partita con me. Il lato più comico fu che per tutta la partita l’Antonini non si mosse mai dalla sua mattonella, e anzi apprezzasse ogni mossa dell’illustre ospite con commenti salaci e denigratori. Sembrava Staunton con Morphy. Io sorpresi Martini con un Gambetto Evans: sacrificai l’Alfiere in f7 e braccai il suo Re per tutta la scacchiera. L’Antonini seguiva sguaiatamente la caccia con cori da stadio. Alla fine, tuttavia, Martini, dall’alto della sua notevolissima classe, mi sfuggì e la partita finì patta. Nonostante il “quasi rete” l’Antonini esultava come se (lui) avesse vinto i Mondiali e gli altri due fossero stati travolti dallo Zambia. Il chirurgo era livido in volto, mentre Martini, con signorile indulgenza, mi invitò a frequentar casa sua per “affinarmi” un po’.
Da allora in poi – per anni – tutti i sabati nel primo pomeriggio sarei sempre andato a casa sua, nella bella villa di fronte al carcere di Sollicciano. La storia di come la galera si fosse materializzata come un fungo atomico ai piedi del giardino di casa sua è tipica – se vera – dell’ignavia del personaggio. A quanto si dice, un giorno gli bussarono all’uscio due socialisti craxiani imbellettati e gli chiesero di apporre una firma su un documento per autorizzare importanti opere di riconversione edilizia. Martini firmò senza neppure leggere – chi l’ha conosciuto può crederci – e l’anziana, arcigna madre non gliel’avrebbe mai perdonato. Presto il carcere diventò il belvedere di tutte le finestre della villa. La madre lo rimproverava continuamente, tanto per quello scempio che per questioni assai più spicciole: per esempio per le troppe uova che gli grattava il fattore, uno scaltro contadino che là aveva piantato le tende e viveva da signore.
Ma Martini era così: gli bastava poco per vivere e non pareva crucciarsi troppo delle monetine che gli cadevano dalle tasche. Non credo che non se ne accorgesse. Credo piuttosto che se ne compiacesse. Probabilmente era un esercizio pratico di teologia.
La sua casa era una piazza d’armi, su più piani, con librerie ammantate di polvere di carta che assomigliavano, per imponenza e maestosità, alla Biblioteca Nazionale di Pechino. Io arrivavo sempre di buon’ora e Martini mi intratteneva per un po’ nel suo salottino davanti alla tv: gli piaceva lo sport, soprattutto il tennis e l’automobilismo. Passavamo poi in una stanza più piccola – direi una stireria – dove campeggiavano tavolo e scacchiera e un pianoforte. Là giocavamo e analizzavamo un po’; Martini, con la sua mano fatata alla Capablanca, confutava spesso le mosse di Tizio e di Caio nelle intricate partite che io sceglievo durante la settimana. Un po’ più tardi giungevano alla spicciolata Renzo Cambi e Paolino Borghesi e ci alternavamo tutti e quattro in partite rapide a giro. Ogni tanto – ahimè – compariva anche un signore che loro chiamavano “il giudice” – e credo che giudice lo fosse davvero – e toccava sempre a me giocarci contro, con poco sugo mio e forse poco anche suo. Frequentavano la casa anche altri personaggi noti del circuito scacchistico fiorentino, ma più raramente: lo zoccolo duro eravamo noi. Un paio di volte comparve Rolando Tacchio, un tipo simpaticissimo che aveva visto sorgere la stella di Sergio Mariotti. Come giocatore lo ricordo così così, ma mantengo una vivida memoria del suo candore e della sua simpatia davvero prorompente. Impossibile pensare male di lui. Così come difficile era prendersela con Paolino Borghesi, che quando perdeva diventava una bestiaccia intrattabile e poteva dire (sul conto del vincitore) qualsiasi nefandezza. Non tutti erano così comprensivi con lui: non Castaldi, per esempio, che, a quanto si dice, una volta gli rifilò un sonoro ceffone, che, sempre a quanto si dice, zitto zitto Paolino prese e portò a casa.
Martini non mi chiuse mai la porta in faccia. A casa sua mi sono sempre sentito a casa. Martini è stato di gran lunga il giocatore più forte che io abbia mai conosciuto. L’intellighenzia fiorentina (federata) avrà forse da ridire sulle mie stravaganti asserzioni, perché Martini non aveva titolo – o se titolo aveva era tutt’al più quello di terza nazionale. La ragione è pura e semplice: Martini non giocò quasi mai in torneo, se non dopo la morte della madre, ormai già anziano e molto malato. Eppure, fior di giocatori che son passati da Firenze (per esempio Erich Eliskases), scoprirono a proprie spese quanto forte fosse il dottor Martini! Chiedete a Mariotti come giocava il dottor Martini e vediamo cosa risponde. Io mi limiterò a dire che a lampo era quasi invincibile e che trattava i finali con tecnica sublime. Ma potrei dire molto di più.
Una sola volta mi accolse con un velatissimo strabismo di diffidenza. Fu quando mi presentai – senza avvertire, com’era mio maleducato costume – con Mahmud. Quel giorno alla scacchiera Martini fu implacabile: Mahmud perse tutte le partite. Io ci rimasi un po’ male e lui se ne accorse. Obiettai che una vita disperata e troppe notti all’addiaccio non sono l’ideale per esprimere la valentia scacchistica, ma il dottore mi rimbrottò severamente: sublimarsi negli altri era a suo dire un peccato di superbia capitale. Non gliene volli, naturalmente, ma mi tenni le mie idee e anche Mahmud: per me gli uomini sono tutti uguali e dunque a ciascuno il suo Cristo.
Quando si ammalò più gravemente, tanto da esser ricoverato in ospedale, non trovai mai il tempo per andare a visitarlo. Un po’ perché erano cominciate le guerre ereditarie – la gran caccia al tesoro, con troppi pesciolini addentellati in prima fila – e a me le guerre per le ossa non sono mai piaciute; un po’ perché mi stavo umanamente perdendo su altre vie. Come tutti gli egoisti lottavo per la (mia) minutissima sopravvivenza. Ogni tanto chiedevo lumi a qualche comune amico, ma più per dovere di convenzione che per apprensione d’interesse.
Io a Martini volevo bene, e non avergli visto la morte in faccia mi ha illuso – almeno per un po’ – che forse non sarebbe morto. E così Cristo si è fermato là, nei pressi del carcere di Sollicciano: là dove io un giorno ho perso la strada di casa, e là dove per me il dottor Martini – per farla breve – non è mai morto.
Lontano dagli occhi, per sempre nel cuore.

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