C’era una volta a Firenze, nella centralissima Via
San Gallo, a due passi dalla casa di Clarice Benini (vice Campionessa
del Mondo nel ’37), uno scalcinato bar, buio, umido e popolarissimo: il
Bar Genio. Nessuno oggi se lo ricorderebbe per i suoi caffè o per i suoi
aperitivi, né tantomeno per i suoi tavoli di tressette e briscola. Più
che come Caffè, infatti, il Genio si distingueva come circolo di
scacchi: il più affollato e cosmopolita della storia fiorentina. Lo
fondò (in senso scacchistico) un oriundo argentino, Sergio Bianchi, già
Maestro dell’A.S.I.G.C. e Campione Italiano per corrispondenza nel ’62.
Dopo aver bramato per
tutta la vita 30 metri quadri in cui esercitare la propria inconfessa
vocazione demiurgica, nei primi anni ’70, dopo infiniti stenti e
pellegrinaggi, ormai imbiancato e sciancato, Bianchi srotolò il suo
tappeto di mezzanotte al Genio. Nell’indifferenza dei proprietari, egli
fu lestissimo a intrufolarsi come una talpa nel retro e a sedersi là con
tutta la famiglia (e siccome era solo al mondo, tutti eran la sua
famiglia). Il Genio non assomigliò
mai a un manierato circolo di scacchi, ma piuttosto a un accampamento di
zingari: per la simbolica posta di un caffè (anche in multiproprietà)
si entrava alle sette del mattino e si usciva dopo mezzanotte. Non fu
dunque un caso che Sergio si trovasse là quando il cuore gli scoppiò, lo
stesso giorno in cui per la prima volta uomini in divisa — ancorché
della Misericordia — profanarono la sacra Ambasciata dei Perdigiorno. Il
bar degli scacchi, tuttavia, sopravvisse al suo fondatore e, ancora
negli anni ’80, l’anacronistico androne pullulava di colorita e
disordinata umanità: il plurilaureato Costantino, Immortale Presidente
della Terra (carica onorifica assolutamente autoreferenziale con la
quale si era elaborato il lutto di un papà fascista fucilato in piazza
dai
partigiani); il Ragioniere, un ometto rubizzo che, scampato al sanatorio
di Pratolino ma non ancora all’altrui tornaconto, non anelava che la
pensione e un sigaro toscano all’ombra di una casetta in campagna che
non riusciva mai a comprarsi; Corrado, l’obliteratore delle schedine del
Totocalcio, che “per principio” non giocava mai una partita dall’inizo
alla fine, ma che per lo stesso arcano principio difendeva sempre le
cause perse di qualcun altro con argomentazioni spesso stupefacenti per
pertinenza e sottigliezza; Pasquale, Mezzo Metro di Calabria laureando
in ingegneria (e già destinato alla Pubblica Amministrazione), che non
appena entrava in perimetri estranei, per familiarizzare, si premurava
subito di chiedere: “Per cortesia: dove sono i servizi?”; Enzo, con le
sue delusioni sentimentali e la sua dolcezza meridionale; Gianfranco,
miope figlio di papà sempre inebriato della sua
boria salentina; eccetera eccetera eccetera.
Nemmeno l’ARCI e la UISP avrebbero mai saputo rifondare un’associazione scacchistica così open source e new global quale allora fu il Bar Genio.
Anni dopo, invece, l’avrei rivisto trasformato in un locale à la page — non più Genio ma Genius — per pariolini riuniti in fascio; ahimè... domani è un altro giorno!
Quando iniziai a frequentare il Genio — non stop, dalla mattina presto a mezzanotte — Mahmud era già un mito. Erano (eravamo) tutti innamorati dei suoi scacchi assoluti e romantici e delle sue esotiche insonnie.
Non ricordo il giorno in cui lo conobbi, ma ricordo bene che l’amicizia era già là prima di me. Egli era all’aspetto un uomo esile, ancora giovane, con gli occhi ardenti e il sorriso chiaro e splendente. La solitudine nel cuore e una storia troppo personale l’avevano portato nella nostra industrializzata penisola, a rimpinguare la già allora folta schiera di quanti sono condannati a vagare, rifugiati sull’inerme via della fuga.
Ci frequentammo per più di un anno, di giorno e di notte, con gli spiccioli contati per il caffè e le sigarette e null’altro da risparmiare. Non c’era probabilmente nulla di magico nella nostra amicizia, se non il desiderio (il bisogno?) che un amico speciale possedesse la parola dell’altro. Come altri prima di noi, fumavamo e tiravamo le ore piccole e pensavamo di cambiare il mondo; e come altri dopo di noi, ci illudevamo che il mondo non avrebbe cambiato noi.
Un giorno lo accompagnai alla Posta Centrale in Piazza della Repubblica, dove il fratello Mohammed gli aveva spedito sul filo del telegrafo 8 dollari e 6 parole perché non dimenticasse l’amore dei suoi. Non so come mi perdonai la vergogna di essere occidentale, nonostante la mia estraneità alla città, agli autobus, alle macchine, al denaro, alle parole, alle scommesse, ai giornali, ai convenevoli, alle discussioni, al cinema, alla radio, ai fidanzamenti, ai matrimoni, alle ricchezze, all’intimità di comodi amori. Nonostante tutto, a fronte dei suoi numeri (8+6=14), ero assolutamente, irrimediabilmente figlio del Dio maggiore.
In Mahmud scintillava uno spirito prezioso, intelligente, elegante, ironico e colto. Non si annoiava mai della gente. Financo nel pensiero scacchistico di Pasquale egli era capace di scoprire il lato in fiore — “Pasquale prega, non analizza” — proprio mentre l’impudico Mezzo Metro, misero e furfante, genuflesso alla scacchiera, pregava e ripregava ché le sue trionfali visioni si avverassero.
Il suo senso della dignità — in nome del quale, sulla cresta possente dell’orgoglio, era inflessibile nel rifiutare un’offerta di lavoro indegna del suo censo — rasentava a volte l’autolesionismo. Ricordo che una volta racimolammo per lui 50.000 lire, con la speranza che non passasse l’ennesima notte al freddo, nel suo stellatissimo Grand Hôtel a cielo aperto. Il mattino dopo lo trovai invece sulla soglia del bar vestito come un principe — con l’anima su un vassoio — ansioso di rioffrirmi quel caffè che gli offrivo io tutti i giorni. Accettai. Eravamo entrambi uomini che costavano poco!
So che i suoi ultimi giorni a Firenze furono uno stillicidio di solitudine e miseria. Il proprietario del bar gli aveva intimato di non rimetter piede nel locale e a nulla valsero le nostre accorate preghiere perché ci ripensasse. Le sirene ulularono, e dopo la città, anche il Genio gli spense vetrine e finestre. Dopo di allora ricordo di averlo aspettato giorno e notte in piedi su strade secondarie, nelle sale delle stazioni e lungo i marciapiedi. Gli altri egiziani di fede cristiana mi invitarono più volte a non perder tempo con lui. Solo qualche anno dopo, qualcuno mi disse che era stato imprigionato per vagabondaggio e poi, con burocratica conseguenza, reistradato nella patria miseria. Altri invece continuarono a riconoscerlo ovunque, come il miraggio di un deserto seminato di sbarre, filo spinato, serrature e cementi.
Io non mi illusi mai. Nel profondo del cuore ho sempre saputo che le lunghe notti spese nell’illusione di rincontrarlo erano solo un modo per fermare il tempo e legarlo stretto ai miei vent’anni.
Di lui infatti non so nulla, se non che ha dormito in prigioni e anche in alberghi a cinque stelle con barboni e pulci e principi e randagi, lontano dalla sua lingua e dai suoi cari; e che certo ha patito la solitudine più del freddo e della fame. So però che quando c’era una scacchiera, di legno o di marmo, di cartone o di tela cerata, alla Mecca o in prigione, ecco allora che il tambourine man si tramutava nel cavaliere dell’eterna gioventù, alto e possente come Nasser in sella al suo cavallo bianco, pronto a seguire senza compromessi la legge del suo cuore, e ’fanculo a tutto il mondo, ai suoi conformisti, ai suoi illuminati progressisti (ma sempre fino a un certo punto) e ai suoi multinazionali gendarmi.
Nemmeno l’ARCI e la UISP avrebbero mai saputo rifondare un’associazione scacchistica così open source e new global quale allora fu il Bar Genio.
Anni dopo, invece, l’avrei rivisto trasformato in un locale à la page — non più Genio ma Genius — per pariolini riuniti in fascio; ahimè... domani è un altro giorno!
Quando iniziai a frequentare il Genio — non stop, dalla mattina presto a mezzanotte — Mahmud era già un mito. Erano (eravamo) tutti innamorati dei suoi scacchi assoluti e romantici e delle sue esotiche insonnie.
Non ricordo il giorno in cui lo conobbi, ma ricordo bene che l’amicizia era già là prima di me. Egli era all’aspetto un uomo esile, ancora giovane, con gli occhi ardenti e il sorriso chiaro e splendente. La solitudine nel cuore e una storia troppo personale l’avevano portato nella nostra industrializzata penisola, a rimpinguare la già allora folta schiera di quanti sono condannati a vagare, rifugiati sull’inerme via della fuga.
Ci frequentammo per più di un anno, di giorno e di notte, con gli spiccioli contati per il caffè e le sigarette e null’altro da risparmiare. Non c’era probabilmente nulla di magico nella nostra amicizia, se non il desiderio (il bisogno?) che un amico speciale possedesse la parola dell’altro. Come altri prima di noi, fumavamo e tiravamo le ore piccole e pensavamo di cambiare il mondo; e come altri dopo di noi, ci illudevamo che il mondo non avrebbe cambiato noi.
Un giorno lo accompagnai alla Posta Centrale in Piazza della Repubblica, dove il fratello Mohammed gli aveva spedito sul filo del telegrafo 8 dollari e 6 parole perché non dimenticasse l’amore dei suoi. Non so come mi perdonai la vergogna di essere occidentale, nonostante la mia estraneità alla città, agli autobus, alle macchine, al denaro, alle parole, alle scommesse, ai giornali, ai convenevoli, alle discussioni, al cinema, alla radio, ai fidanzamenti, ai matrimoni, alle ricchezze, all’intimità di comodi amori. Nonostante tutto, a fronte dei suoi numeri (8+6=14), ero assolutamente, irrimediabilmente figlio del Dio maggiore.
In Mahmud scintillava uno spirito prezioso, intelligente, elegante, ironico e colto. Non si annoiava mai della gente. Financo nel pensiero scacchistico di Pasquale egli era capace di scoprire il lato in fiore — “Pasquale prega, non analizza” — proprio mentre l’impudico Mezzo Metro, misero e furfante, genuflesso alla scacchiera, pregava e ripregava ché le sue trionfali visioni si avverassero.
Il suo senso della dignità — in nome del quale, sulla cresta possente dell’orgoglio, era inflessibile nel rifiutare un’offerta di lavoro indegna del suo censo — rasentava a volte l’autolesionismo. Ricordo che una volta racimolammo per lui 50.000 lire, con la speranza che non passasse l’ennesima notte al freddo, nel suo stellatissimo Grand Hôtel a cielo aperto. Il mattino dopo lo trovai invece sulla soglia del bar vestito come un principe — con l’anima su un vassoio — ansioso di rioffrirmi quel caffè che gli offrivo io tutti i giorni. Accettai. Eravamo entrambi uomini che costavano poco!
So che i suoi ultimi giorni a Firenze furono uno stillicidio di solitudine e miseria. Il proprietario del bar gli aveva intimato di non rimetter piede nel locale e a nulla valsero le nostre accorate preghiere perché ci ripensasse. Le sirene ulularono, e dopo la città, anche il Genio gli spense vetrine e finestre. Dopo di allora ricordo di averlo aspettato giorno e notte in piedi su strade secondarie, nelle sale delle stazioni e lungo i marciapiedi. Gli altri egiziani di fede cristiana mi invitarono più volte a non perder tempo con lui. Solo qualche anno dopo, qualcuno mi disse che era stato imprigionato per vagabondaggio e poi, con burocratica conseguenza, reistradato nella patria miseria. Altri invece continuarono a riconoscerlo ovunque, come il miraggio di un deserto seminato di sbarre, filo spinato, serrature e cementi.
Io non mi illusi mai. Nel profondo del cuore ho sempre saputo che le lunghe notti spese nell’illusione di rincontrarlo erano solo un modo per fermare il tempo e legarlo stretto ai miei vent’anni.
Di lui infatti non so nulla, se non che ha dormito in prigioni e anche in alberghi a cinque stelle con barboni e pulci e principi e randagi, lontano dalla sua lingua e dai suoi cari; e che certo ha patito la solitudine più del freddo e della fame. So però che quando c’era una scacchiera, di legno o di marmo, di cartone o di tela cerata, alla Mecca o in prigione, ecco allora che il tambourine man si tramutava nel cavaliere dell’eterna gioventù, alto e possente come Nasser in sella al suo cavallo bianco, pronto a seguire senza compromessi la legge del suo cuore, e ’fanculo a tutto il mondo, ai suoi conformisti, ai suoi illuminati progressisti (ma sempre fino a un certo punto) e ai suoi multinazionali gendarmi.
Mahmud - G. Fortunato
Firenze, 1984
Est-Indiana E77
Firenze, 1984
Est-Indiana E77
1. d4 Cf6 2. c4 g6 3. Cc3 Ag7 4. e4 d6 5.
f4
Il cosiddetto “Attacco dei Quattro Pedoni”.
5. ... 0-0 6. Cf3 c5 7. d5 e6 8. Ae2 exd5 9. e5!?
Il “Gambetto Fiorentino”.
9. ... dxe5 10. fxe5 Cg4 11. Ag5 Db6?
Un’innovazione di cui il narciso Gianfranco era orgogliosissimo...
12. Cxd5!
Avanti popolo!
12. ... Dxb2 13. Tb1 Dxa2 14. 0-0 Cxe5?
La brama dei Pedoni! Era invece di prammatica un’austera continenza (14. ... Cc6!).
15. Ce7+!
Lungi dal premettere 15. Cxe5? Axe5, giacché dopo 16. Ce7+ Rg7 il Re nero è al sicuro.
15. ... Rh8 16. Cxe5 Axe5 17. Txf7!!
Il miracolo del sacrificio! All’improvviso il ciarliero pugliese, silenziosissimo, si assorse in una lunga ponzata. Tutte le varianti evocavano però lo stesso incubo. Se infatti 17. ... Txf7 allora 18. Dd8+ Rg7 19. Dg8 matto; se invece 17. ... Ag7 allora 18. Txf8+ Axf8 19. Af6+ Ag7 20. Dd8 matto. Se infine 17. ... Ad4+ allora 18. Dxd4+!! finis.
17. ... Cd7
Con la morte nel cuore. Nelle analisi del senno di poi Gianfranco propugnava 17. ... Tg8, onde svelenire l’attacco avversario con il sacrificio di una Qualità, ma Mahmud lo disilluse prontamente con 18. Ad3!, da cui 19. Txh7+! Rxh7 20. Dh5+.
18. Txf8+ Cxf8 19. Dd5!!
Rigor mortis. Il Bianco minaccia sia Dd5-g8 matto che Dd5xe5 matto.
19. ... Dxb1+
Ancora un interludio! Se 19. ... Ad4+ allora 20. Dxd4+!! come poi nel testo.
20. Af1 Ad4+ 21. Dxd4+!!
La Piramide del Genio!
21. ... cxd4 22. Af6 matto.
Il cosiddetto “Attacco dei Quattro Pedoni”.
5. ... 0-0 6. Cf3 c5 7. d5 e6 8. Ae2 exd5 9. e5!?
Il “Gambetto Fiorentino”.
9. ... dxe5 10. fxe5 Cg4 11. Ag5 Db6?
Un’innovazione di cui il narciso Gianfranco era orgogliosissimo...
12. Cxd5!
Avanti popolo!
12. ... Dxb2 13. Tb1 Dxa2 14. 0-0 Cxe5?
La brama dei Pedoni! Era invece di prammatica un’austera continenza (14. ... Cc6!).
15. Ce7+!
Lungi dal premettere 15. Cxe5? Axe5, giacché dopo 16. Ce7+ Rg7 il Re nero è al sicuro.
15. ... Rh8 16. Cxe5 Axe5 17. Txf7!!
Il miracolo del sacrificio! All’improvviso il ciarliero pugliese, silenziosissimo, si assorse in una lunga ponzata. Tutte le varianti evocavano però lo stesso incubo. Se infatti 17. ... Txf7 allora 18. Dd8+ Rg7 19. Dg8 matto; se invece 17. ... Ag7 allora 18. Txf8+ Axf8 19. Af6+ Ag7 20. Dd8 matto. Se infine 17. ... Ad4+ allora 18. Dxd4+!! finis.
17. ... Cd7
Con la morte nel cuore. Nelle analisi del senno di poi Gianfranco propugnava 17. ... Tg8, onde svelenire l’attacco avversario con il sacrificio di una Qualità, ma Mahmud lo disilluse prontamente con 18. Ad3!, da cui 19. Txh7+! Rxh7 20. Dh5+.
18. Txf8+ Cxf8 19. Dd5!!
Rigor mortis. Il Bianco minaccia sia Dd5-g8 matto che Dd5xe5 matto.
19. ... Dxb1+
Ancora un interludio! Se 19. ... Ad4+ allora 20. Dxd4+!! come poi nel testo.
20. Af1 Ad4+ 21. Dxd4+!!
La Piramide del Genio!
21. ... cxd4 22. Af6 matto.
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