余华 (Yú Huá)
La sua voce di sedicenne è ormai scesa per sempre di tono. Nella decina
d’anni successivi a questi eventi, ogni giorno la sua voce ha girato
monotona e lontana nel mio orecchio, diventando così eccessivamente familiare
da cancellare ogni passione. Nel crepuscolo di oggi continuo a vedere mia
moglie seduta di fronte a me e mi sento solo sempre più stanco. Lei continua a
sferruzzare la sciarpa azzurra. Il suo viso di oggi è ancora lo stesso viso del
passato, ha solo perso l’elasticità di allora. Le sue rughe sono
cresciute sotto i miei occhi e mi sono familiari come il palmo della mia mano.
In questo preciso istante comincia a prestare attenzione alle mie parole.
“Prima ancora che tu parli, so già cosa vuoi dire: ogni giorno tra le 11,30 del mattino e le 5 di pomeriggio io so se sei tornata a casa. Potrei riconoscere la tua voce in mezzo al rumore di passi di cento donne. Ma, dimmi, per te non sarebbe lo stesso?”.
Lei sospende il movimento del suo lavoro a maglia e mi guarda con serietà.
Io continuo: “Noi non possiamo certo più sorprenderci piacevolmente l’un l’altro. Al massimo possiamo darci un po’ di gioia, ma questo genere di gioia la si trova ovunque per la strada!”.
Questa volta è lei a parlare:
“Capisco cosa vuoi dire”.
“Davvero?”. Non so come affrontare queste parole dette da lei, posso solo prenderne atto.
Lei ripete: “Capisco cosa vuoi dire”.
Mentre prosegue vedo le lacrime spuntarle negli occhi: “Tu in realtà desidereresti prendermi a calci”.
Io nego e ribatto: “Questo discoro è molto sgradevole”.
Lei ripete: “Tu desideri prendermi a calci”, e intanto continua a piangere.
“Questo discorso è veramente troppo sgradevole”, dico e subito dopo propongo:
“Cerchiamo di ricordare insieme un momento passato”.
“È l’ultima volta?”, domanda lei.
Evito la domanda e continuo: “Il nostro ricordo a quando risale?”.
“È l’ultima volta?”, mi chiede di nuovo.
“Risale all’autunno del 1977”, dico. “Sedevamo su di un autobus cigolante per andare in quel luogo a 20 km di distanza per controllare se tu fossi già incinta. Fu allora che ho davvero perduto l’anima”.
“La tua anima non è perduta”, dice.
“Non importa che mi consoli, io ho veramente perduto l’anima”.
“No, non hai perduto l’anima”, ripete. “Da quando ti conosco ad ora hai perduto l’anima una sola volta”.
“Quando?”, domando.
“Ora”, risponde.
“Prima ancora che tu parli, so già cosa vuoi dire: ogni giorno tra le 11,30 del mattino e le 5 di pomeriggio io so se sei tornata a casa. Potrei riconoscere la tua voce in mezzo al rumore di passi di cento donne. Ma, dimmi, per te non sarebbe lo stesso?”.
Lei sospende il movimento del suo lavoro a maglia e mi guarda con serietà.
Io continuo: “Noi non possiamo certo più sorprenderci piacevolmente l’un l’altro. Al massimo possiamo darci un po’ di gioia, ma questo genere di gioia la si trova ovunque per la strada!”.
Questa volta è lei a parlare:
“Capisco cosa vuoi dire”.
“Davvero?”. Non so come affrontare queste parole dette da lei, posso solo prenderne atto.
Lei ripete: “Capisco cosa vuoi dire”.
Mentre prosegue vedo le lacrime spuntarle negli occhi: “Tu in realtà desidereresti prendermi a calci”.
Io nego e ribatto: “Questo discoro è molto sgradevole”.
Lei ripete: “Tu desideri prendermi a calci”, e intanto continua a piangere.
“Questo discorso è veramente troppo sgradevole”, dico e subito dopo propongo:
“Cerchiamo di ricordare insieme un momento passato”.
“È l’ultima volta?”, domanda lei.
Evito la domanda e continuo: “Il nostro ricordo a quando risale?”.
“È l’ultima volta?”, mi chiede di nuovo.
“Risale all’autunno del 1977”, dico. “Sedevamo su di un autobus cigolante per andare in quel luogo a 20 km di distanza per controllare se tu fossi già incinta. Fu allora che ho davvero perduto l’anima”.
“La tua anima non è perduta”, dice.
“Non importa che mi consoli, io ho veramente perduto l’anima”.
“No, non hai perduto l’anima”, ripete. “Da quando ti conosco ad ora hai perduto l’anima una sola volta”.
“Quando?”, domando.
“Ora”, risponde.
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